PENSAVANO DI FARLA FRANCA
Come i partigiani e certe autorità comunali
credono di poter fare la Storia ed eternarla nel marmo, stravolgendo la
verità... e come certa stampa, di importanza nazionale, si associa alle
istituzioni di cui sopra, distorcendo ancor più la verità e, quando proprio non
può, sottacendola.
Mario Abriani
Forse speravano che fossimo morti tutti o, più
semplicemente, credevano che fossimo diventati tanto vecchi e rincitrulliti da
non muovere più un passo per i monti e di non accorgerci più di nulla. E allora
si sono messi insieme, Comune e A.M.P.I. di Bargagli, piccolo paese
dell’entroterra in provincia di Genova, bella associazione questa, per
celebrare, con un monumento che ci dicono inaugurato in gran pompa il 27 aprile
dello scorso anno, il cinquantesimo anniversario di un episodio bellico che,
secondo quanto scolpito nel marmo dell’immagine che riproduciamo, li avrebbe
visti non solo partecipi ma vincitori. Niente di più falso! Tutti questi signori
infatti, nessuno escluso, sono completamente estranei a quanto avvenuto in quel
pomeriggio di fine aprile. E quei pochi partigiani, o presunti tali, che quel
giorno si trovavano, non nel bosco della "Tecosa" di certo, ma forse nelle
vicinanze, o sono accorsi più tardi, subito dopo aver udito il tam-tam che
annunciava trionfalmente che tutto era finito, sono stati soltanto degli
spettatori, dei poveri, timidi, sparuti spettatori almeno fino a quando qualcuno
di noi portava ancora una pistola alla cintura. Tutti noi che facevamo parte di
quella colonna ,che non era composta di settemila uomini, ma di meno dalla metà,
ricordiamo, ancora chiaramente, che i pochi individui che abbiamo incontrato in
molte ore di marcia, quando ancora perfettamente inquadrati ed armati, dopo
esserci lasciati alle spalle Uscio, cercavamo di superare i contrafforti montani
per raggiungere la pianura lombarda, erano disarmati o fingevano di esserlo. E
la loro viltà l’hanno dimostrata, quando ci incrociavano, o con un breve cenno
di saluto, o i più coraggiosi, o forse soltanto i più viziosi, con la richiesta
di una sigaretta. Il loro odio, il loro represso "sogno di libertà", il loro
"coraggio" sono esplosi soltanto quando noi, durante una breve sosta in una
valletta tatticamente inadatta, accerchiati da truppe regolari dell’esercito
degli Stati Uniti, vista l’impossibilità di una ragionevole difesa, siamo stati
costretti ad arrenderci anzi a "deporre le armi", come ricorda la lapide, con
buona pace della sintassi. Ma le armi le abbiamo deposte ai combattenti della
92° divisione di fanteria statunitense e non alle "forze di liberazione
nazionale" come i signori del Comune e dell’A.M.P.I. di Bargagli vorrebbero far
credere. Ecco smascherata una delle tante vergognose, oscene menzogne di cui
questi signori che all’appellativo di partigiani amano sostituire spesso quello
di patrioti, hanno cercato di riempire non solo la storia d’Italia ma le menti
dei nostri figli e nipoti. Questi indefessi scalpellini, se non sono gli stessi,
appartengono certamente alla medesima risma di quelli che a Cencerate e a
Barostro si sono accaniti, sempre a martellate e per ben due volte, sulle lapidi
che noi, qualche giorno prima, avevamo infisso sul muro di cinta di quei due
cimiteri, per ricordare l’eccidio di 15 martiri per la maggior parte marò di San
Marco, tra i quali l’eroico quindicenne Oreste Flauto, medaglia d’Oro al valor
militare. Loro, i partigiani, le lapidi le erigono per immortalare le menzogne e
la vergogna e le distruggono quando la verità li offende. Noi che questi
partigiani li abbiamo sempre combattuti e continueremo a combatterli finché vita
ci assiste, dobbiamo fare esattamente il contrario. Dobbiamo erigere le lapidi
della verità e dell’onore (e quando lo facciamo anche se poi ce le fanno a
pezzi) e dovremmo distruggere quelle della menzogna e della vergogna e questo
però non lo facciamo e non lo faremo mai. E non soltanto per una questione di
etica, di rispetto della libertà e di buon gusto e nemmeno perché sia così
difficile usare un martello o ce ne manchi il coraggio, ma perché un ricordo
marmoreo come quello di Bargagli, è un monumento al livore, all’impotenza, al
falso di chi non sa cosa sia onore, dignità, verità e malgrado ciò pretenderebbe
di passare alla Storia come eroico ed intemerato salvatore della Patria.
Restino, restino intatti questi monumenti, anzi ne vengano altri, magari anche
in luoghi meno impervi e solitari, così che tutti possano ammirarli e ...
conoscere finalmente la verità.
Il giornalista Edoardo Meoli forse prendendo ispirazione dalla marmorea lapide
di Bargagli, o per aver prestato orecchio alle tante "favole" su colonne
interminabili di tedeschi e di fascisti e della loro cattura, "favole" che, dopo
cinquant’anni, sono quasi entrate nella tradizione popolare locale, e aver
magari incontrato, durante l’estate, alcune auto con targa tedesca, ferme per un
pic-nic a fianco di una strada dell’entroterra, ha scritto un articolo sul
Secolo XIX dell’8 dicembre 95, dal titolo: "IL TESORO DELLA WEHRMACHT? E’ A
USCIO" In cinque quarti di colonna, Meoli ha moltiplicato per sette il numero
dei militari tedeschi e italiani che formavano la famosa colonna, non
accontentandosi ovviamente del raddoppio già eternato nella lapide di Bargagli.
Questi uomini erano tutti carichi non di armi e di munizioni ma di casse
contenenti banconote e preziosi. Di queste casse abbandonate, anzi accuratamente
nascoste dai soldati nazisti prima di rendere la armi alle forze di liberazione
nazionale, sarebbero oggi alla ricerca numerosi turisti tedeschi armati (il
lupo, specie se tedesco, perde il pelo ma non il vizio) di macchine
fotografiche, carte topografiche, badili e zappe. Certamente gelosa della
scoperta la sua "consorella" ligure, La Stampa di Agnelli o di Gad Lener (fate
voi la scelta secondo preferenze) pubblicava il 21 dello stesso dicembre un
analogo articolo, a firma Fabio Pozzo, in cui, grosso modo, si ripetevano le
stesse panzane aggiungendo alle casse di gioielli e banconote, altre casse di
monete, di tele di gran valore, di libri antichi e addirittura di macchine per
la stampa delle banconote che qualche montanaro, sottrattele ai tedeschi,
avrebbe fatto funzionare anche dopo. Il nostro simpatico amico e camerata Gigi
Piantato, che abita proprio in zona da anni e che faceva parte, come chi scrive,
della "famosa colonna" in quanto ufficiale del II° Btg: del 6° Rgt. della San
Marco, ha perso la pazienza e ha scritto al Secolo XIX per correggere le molte
inesattezze e ristabilire la verità. Il giornale sempre a firma di Edoardo Meoli
pubblicava il 24 gennaio 96 un altro articolo in cui riportava molte delle
osservazioni ricevute da... (riportiamo testualmente): Luigi Piantato, oggi
titolare di un’edicola a Recco, che lucidamente scrive la "sua" storia su quell’episodio
oscuro. Ma questo articolo finisce così:
I militari dell’esercito italiano e quelli tedeschi si arresero poi agli
americani che si erano inoltrati nella Fontanabuona. Così spiega Piantato: "Non
ci siamo arresi ai partigiani anche se su questo punto non è mai stata fatta
chiarezza. Tutta la colonna ebbe l’onore delle armi e fu fatta prigioniera: i
militari italiani furono poi trasferiti al campo di Coltano. Inutile dire che
l’inciso: "anche se su questo punto non è mai stata fatta chiarezza" Piantato
non lo ha mai scritto. Inutili sono state le proteste scritte, telefoniche e a
viva voce di Piantato che pretendeva una rettifica.
Le rettifiche ho il sospetto che siano come la verità.
A molti danno fastidio.
SAN MARCO N. 12. Gennaio-Marzo 1996
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