e storie 1: la seconda guerra mondiale e le ombre della resistenza

«I partigiani prelevarono i miei Trovai i corpi dopo la Liberazione»

Il filosofo Mathieu e l' agosto ' 44: papà fu denunciato da uno che mirava al suo posto Non voglio avere più ricordi, con le mie due sorelle non ne parliamo neanche adesso

ROMA - Quando quelli vennero, sua madre Clara stava stirando i calzoni lisi di qualche loro compagno: dava una mano, come poteva, anche ai partigiani della zona. Suo padre Pietro era lì con lei, nel casolare di Procaria, in Val di Lanzo, dove la famiglia era sfollata da Torino tre anni prima: aveva da poco cominciato le ferie, un tentativo di normalità impossibile in quell' agosto italiano del 1944. Era proprio Pietro che cercavano - rovinato dalla lettera di un delatore che voleva prenderne il posto alla Fiat - ma si portarono via anche la moglie. «Dovete seguirci», disse il comandante della brigata garibaldina, senza spiegazioni né emozioni, benché i Mathieu fossero benvoluti da molti nella valle. Li misero contro il muro del cimitero; dopo, li sotterrarono senza una croce. «Per due mesi non ho saputo niente», racconta adesso Vittorio Mathieu, nella sala grande della rivista Ideazione, dove si svolge il nostro colloquio: «A lungo sono rimasto convinto nell' inconscio che mio padre potesse tornare da un momento all' altro». Parla piano il professore, e con grande pudore, di questa storia lontana, così personale eppure così simile a tante storie d' italiani sepolte e dimenticate per decenni. E parla più spesso di suo padre che di sua madre: Pietro, per i tempi, doveva essere un papà ragazzino, dolce e complice, «quando l' ammazzarono aveva 41 anni e io ne avevo venti; da piccolo andavo a prenderlo con mamma all' università, e questo mi pareva normale, lo guardavo che studiava ingegneria navale assieme ai suoi compagni, alla scrivania di casa, col nostro gatto che gli stava sempre sulle spalle. Nell' ultimo periodo sono entrato anch' io in Fiat e a pranzo mangiavamo alla gavetta insieme, eravamo amici, quasi coetanei, alla fine». Mamma Clara doveva essere più distante, «mi sono avvicinato a lei tardivamente, non so se è il caso di supporre un complesso edipico rovesciato». Mathieu dice che la scelta della sua vita, la filosofia, gli è servita a superare la loro fine, «questa cosa che in un certo senso mi ha pesato per sempre»: «Schopenhauer mi ha aiutato, era un pessimista empirico ma un ottimista trascendentale». Poi c' è stata la fede: «Considero un complimento essere giudicato cattolico; se il Padreterno mi ritenga tale, beh, è un' altra faccenda». Parlare di queste cose, del lato oscuro della Resistenza, è un tormento che si riapre; per molti - basti pensare a Pasolini e a suo fratello Guido, il partigiano della Osoppo ucciso a Porzus «da mano fraterna nemica» - una sofferenza accompagnata da senso di colpa, bisogno di rimuovere. Mathieu spalanca i grandi occhi chiari sul passato e non rimuove nulla. Tuttavia il filosofo che ha preso il posto del ragazzo smarrito di quell' estate ' 44 torna su, quando ci s' avvicina alla soglia del dolore. L' intellettuale talvolta riesce a parlare come se quei fatti fossero altro da sé: «Oggi dire queste cose sembra una tragedia, ma di tragedie ce n' erano tante allora. Molti di noi preferiscono seppellire certe vicende, finalmente sono passate alla storia ora che la mia generazione sta morendo». «Presi contatto con la formazione di partigiani comunisti che operava nella zona e mi dissero la verità, certi amici del Cln mi aiutarono - racconta infine -. I corpi li hanno trovati solo dopo la Liberazione. Adesso lì c' è una lapide. Mia madre e mio padre sono stati sepolti lassù per dieci anni». Procaria era una frazioncina di Ceres, «trentacinque anime, il resto tutti sfollati. Parecchie ville. Mio padre coi soldi di un' eredità aveva preso lì una vecchia casa, dopo il bombardamento della nostra casa a Torino, in corso Francia». A Procaria, quel giorno d' agosto, c' erano anche le sorelle di Vittorio Mathieu, Maria Clotilde che aveva 14 anni e Luciana che ne aveva cinque, e nonna Clotilde, la madre di Clara, «che è rimasta sotto choc fino alla morte». Lui, Vittorio, in quel periodo stava a Torino da una zia, studiava all' università e lavorava all' ufficio Germania della Fiat: «Sarei andato in ferie di lì a poco, doveva venirmi a prendere mio padre e non venne. Al suo posto si presentò un avvocato suo amico, Marco Dodero, e mi disse "sono scomparsi"». Raggiungere la Val di Lanzo controllata dai partigiani, in quel momento, non era facile per provare a cercare, a capire com' era andata: Torino, in mano alla Rsi, era già un mattatoio, poi i massacri sarebbero continuati a parti rovesciate, alla fine della guerra, nella città livida che Giampaolo Pansa racconta così ne Il sangue dei vinti: «La resa dei conti fu di un' ampiezza senza uguali nell' Italia del Nord ... Si poteva essere giustiziati anche per colpe da poco o inesistenti». Inesistente, nel rifugio in Val di Lanzo, a quaranta chilometri dalla città, fu la colpa di Pietro Mathieu, ma tanto bastò, dice oggi suo figlio. «Mio padre era entrato in Fiat aeronautica come disegnatore, poi diventò caposervizio del laboratorio sperimentale. Un giorno mi disse: "Qualcuno potrebbe aspirare a questo posto". Io gli risposi: "Non mi pare granché remunerativo". E lui: "Hai ragione, però potrebbe diventarlo". Da quel posto si approvavano i prototipi, se uno avesse voluto farsi corrompere di soldi ne avrebbe fatti, eccome». Qualcuno proprio questo aveva in mente: «Mi dissero che era un dipendente di mio padre quello che mandò la lettera, aveva scritto che Pietro Mathieu era una spia dei nazifascisti: una calunnia. No, il suo nome adesso non voglio ricordarlo». «Quando sono nato, mio padre era indifferente alla politica. Eravamo una famiglia di tradizione monarchica, il mio trisnonno si chiamava Carlo Felice e stava alla corte di Carlo Felice. Un Mathieu governatore di Sardegna ebbe da Cavour - che non voleva compromettersi - l' ordine di non lasciare attraccare a Cagliari le navi dei Mille. Mio padre diventò un fascista abbastanza convinto al tempo della guerra d' Africa, fino alla campagna di Grecia, quando ebbe un rivolgimento verso l' antifascismo. Ricordo le discussioni a casa di Manlio Brosio, già dichiaratamente antifascista. I Brosio hanno avuto molta influenza su di me. Dopo l' 8 settembre ero caporalmaggiore, volevo andare in montagna coi partigiani. Avevo un amico di Giustizia e Libertà, Luciano Gruppi, mi attraeva. Poi lui diventò comunista, io già allora dei comunisti non volevo saperne, avevo studiato le loro enunciazioni teoriche. Rischiavo anche di venire arruolato a forza nella Repubblica Sociale. Per evitarlo, mio padre mi fece assumere alla Fiat, ufficio Germania, parlavo un buon tedesco. Cominciai a viaggiare». Erano giorni confusi, disperati per tutti, e per certi aspetti - riletti oggi - quasi incredibili. «Lei si sorprenderà, ma ho visto gente che in primavera ed estate stava in montagna con la Resistenza e in autunno e inverno passava alla Rsi, li ho visti in fila davanti alle caserme, l' inverno era durissimo e i fascisti li perdonavano purché si arruolassero nel loro esercito». Il silenzio s' è sedimentato, poco a poco. «Mia nonna e le mie sorelle le rividi solo dopo la fine della guerra: no, neanche con la più grande, Maria Clotilde, ho parlato molto di questa cosa. Neppure adesso ne parliamo». «Ho viaggiato ancora, sempre con le credenziali Fiat, ho cercato questa distrazione, una vita allora molto avventurosa». Il professore usa spesso questa parola, «distrazione», per quei suoi viaggi di lavoro: la fuga dal male che si portava dentro. Non ha cercato gli assassini di Pietro e Clara, ma nemmeno li ha perdonati: «In senso tecnico no, perché il perdono implica la metanoia, il pentimento, il cambiamento di meta, che in loro non avvenne. Ma i responsabili materiali, il commissario politico e il comandante della brigata, morirono presto e quello morale non riuscì nel suo intento: a prendere il posto di dirigente del laboratorio sperimentale fu, tempo dopo, un mio compagno, che pure lavorava con mio padre». Del delatore, qui, non sapremo il nome: «Non l' ho più visto. A casa nostra, molto più tardi, ho ritrovato un libro, "La storia della musica" di Della Corte. Era rimasto lì, a mio padre l' aveva regalato proprio lui. L' ho dato via, non voglio avere più ricordi». Goffredo Buccini (1-continua)

 

 Chi è Vittorio Mathieu LA BIOGRAFIA Vittorio Mathieu è nato a Varazze, in provincia di Savona, il 12 dicembre 1923. Si è laureato in Filosofia a Torino nel 1946 LA CARRIERA Dopo la laurea ha intrapreso la carriera universitaria iniziando come libero docente nel 1956. Ordinario a Trieste nel ' 61 e a Torino nel ' 67, è professore emerito di Filosofia morale dell' Università di Torino LE OPERE E' autore di più di 400 pubblicazioni sui temi della filosofia, della filosofia della scienza e dell' estetica. E' socio dell' Accademia dei Lincei, membro del Comitato nazionale per la Bioetica e presidente del Comitato scientifico della Fondazione Ideazione L' omicidio dei genitori L' ESECUZIONE Pietro Mathieu, padre di Vittorio, e Clara, sua madre, vennero giustiziati da una brigata partigiana perché accusati di essere spie dei nazifascisti. I due coniugi vennero prelevati nella loro casa di Procaria (frazione di Ceres, a 40 chilometri da Torino) nell' agosto del ' 44, portati al cimitero, trucidati contro il muro e sepolti senza una lapide o una croce. I loro corpi vennero trovati solo dopo la Liberazione IL DELATORE L' accusa di collaborazionismo era infondata e basata sulla falsa accusa contenuta in una lettera inviata ai garibaldini da un collaboratore di Pietro, desideroso di prenderne il posto quale caposervizio del laboratorio sperimentale della Fiat

Buccini Goffredo

Pagina 15
(23 dicembre 2003) - Corriere della Sera


 
Home